Per un ragazzo chiamato Fenomeno
di Zio Athos Andrea Maietti
Roma, 12 Aprile 2000, finale di Coppa Italia tra Lazio e Inter
- No, que no quiero verlo! Non voglio rivedere l’ossessiva sequenza di un ragazzo ululante a terra con il ginocchio scavezzato tra le mani: «Madre, ayudame !».
- Che esagerazione, questa commozione per Ronaldo! Se anche non dovesse più giocare a pallone, resterebbe sempre un privilegiato giovane miliardario.
- Sì, ma noi ?
- Che vuoi dire ?
- Lo dice Shakespeare : “Quando una maestà finisce, non muore sola, ma è un gorgo che tutto porta con sé.”. Ronaldo era una maestà del pallone. Lo chiamavano Fenomeno, perché riusciva a inventare come nessun pedatore comune. Della razza avara di Pelè e Maradona, Di Stefano e Cruyff, Platini e Rivera, Van Basten e Garrincha. Scrive il poeta Vinicius de Moraes nel suo “Canto d’amore per la nazionale del Brasile” : “La rivoluzione sociale in marcia si ferma incantata a veder palleggiare Garrincha e poi prosegue il cammino”.
- Continuo a non capire.
- Il calcio, malgrado le ferite tele-miliardarie, resta una favola antica, la reliquia di un sogno, quando scendono in terra poeti come Ronaldo. La gente si scalda ai loro racconti, va in estasi per la loro poesia. Ronaldo scattava, ondeggiava davanti al difensore pronto a calare il fendente sulle sue caviglie preziose, lo superava con levità superumana, ipnotizzava il portiere tra i pali e mandava la palla a baciare la rete, che s’illuminava come l’avesse baciata il sole.
- Perché parli al passato ?
- Temo l’invidia del destino : “Come mosche per monelli dispettosi noi siamo per gli dei: ci uccidono per loro sport”: l’è semper lü, Shakespeare. Ronaldo non tornerà più qual era. Dovrà accettare di aver volato e cantato per una sola breve stagione. E noi torneremo ad aspettare altre farfalle di paradiso. Perché non si vive senza lo straccio di un sogno.