Limina

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Diario della luna antica

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Note, flash, zampilli di varia umanità: scritti col lapis se non proprio con la penna d’oca. La ferialità, la periferia. Nel nome di quel che  resta della luna di Leopardi, di quel che resta (non all’opposto ma accanto) delle capriole di Gianni Brera.

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5 Marzo 2011

5 Marzo 2011

Caro ineffabile don Kilometro

Giovedì 3 Marzo. Don Luigi da Turano al telefono: «E’ morto don Vittorio». Don Vittorio Soldati. Anche se sapevo, come per mia madre e per mio padre, lo stesso sgarro dalle parti del cuore. Caro, ineffabile don Kilometro. La scumagna dagli anni Cinquanta a Cavenago, una delle infinite tappe del suo girovagare da coadiutore per le parrocchie del Lodigiano: amoveatur senza promoveatur. La sua figura allampanata di giovane prete d’oratorio che saltabeccava a balzi di chilometrico compasso sui cinquanta scalini in terra battuta che scendevano al campo sportivo. Per le ubbie del vivere il conforto della sua fede, che gli tracimava naturale come  acqua di fontanile. Fino all’approdo ai silenzi di Abbadia Cerreto. Certe sue telefonate nel cuor dell’inverno: «Son don Vittorio, son chì, inturtiad ne la nébia! O, mama, s’te savaréssi!». Ma molto più forte è stata la gioia dell’abbazia che in quarant’anni di permanenza lui ha fatto risplendere in arcana semplicità. Ricordi, don Vittorio? Una decina d’anni fa, la tua visita nel mio cantuccio di Corso Archinti Il tramonto lombardo accendeva un cielo di presepio alla mia finestrella tra i tetti di Lodi. E tu: «Bello! Ma chì l’è un po’ cume ess in preson! Là me se slarga el cör». Là, ad Abbadia. Sono contento di aver ricopiato, un paio d‘anni fa, un tuo scritto da un foglietto erratico, nella tua grafia a ardue zampe di gallina. Eccolo: “Mi sono sempre ispirato al motto latino “per aspera ad astra”: attraverso la debolezze, i limiti, le sofferenze umane si giunge alla infinita gioia ‘celeste’. In un recente ‘ritiro spirituale’ di quaresima ai sacerdoti, nel commento alla prima lettera di San Paolo ai Corinti, è stato evidenziato come l’autentica ‘pastoralità’ dei parroci è di essere fedeli alla ‘Parola’, indipendentemente da ogni subdolo interesse, imparato non solo economico, ma anche e soprattutto morale, personale, quale il plauso umano. Così, in questo spirito, confortato dalla ‘Grazia di Dio’, mi sento di continuare la mia opera al ‘Cerreto’ in qualità di parroco. E’ vero, sono anziano: ho 79 anni e dovrei andare ‘in pensione’. Si badi però al termine anziano: comincia con ‘anzi’. E’ azzeccato: a una certa età , se si gode di buona salute, sia mentale che fisica, si ha dinnanzi (‘anzi’) tutta una serie di esperienze che non si possono ignorare, a condizione di avvalersene per l’avvenire. Sono tornato ritemprato e come rimesso a nuovo dalla mia parentesi ospedaliera. Mi sento pronto a riprendere anche la mia attività di manutenzione del verde dell’abbazia, con juicio ovviamente. E’ la mia vita. I cerretesi sono ammirevoli nel darmi una mano. A loro sono grato, soprattutto alle donne che attendono alla pulizia della chiesa. Non è facile dedicarsi ai servizi semplici e umili, che non fanno parlare di sé. Continuerò a camminare con i miei parrocchiani, come ho fatto in questi quarant’anni, in semplicità di cuore. Finché loro vorranno camminare accanto a me. Finché a Dio piacerà”. Mi sta allacciando  il magone mentre sto passando davanti alla ‘Mista’ di Cortepalasio, diretto ad Abbadia per vederti un’ultima volta.   Mi soccorre il ricordo della festa di Cornogiovine per i tuoi cinquant’anni di sacerdozio. Quasi intruso alla tua festa, nell’omelia hai scandito brandelli di sapienza scavati dalla Bibbia e dalla vita. “Prima che io nascessi tu mi hai conosciuto”; “Nell’otre tuo raccogli le mie lacrime”. Poi ti sei accorto dei giovani presenti: «Cosa lasciare ai giovani? – hai detto - L’amore alla vita. La vita, che non finisce qui». E quando la messa è finita, sei tornato di corsa dalla sacrestia col tuo passo da don Kilometro.  Hai abbrancato il microfono : «E adesso, andiamo in letizia a slungà i pé suta al tàul de l’usteria».
19 Febbraio 2011

19 Febbraio 2011

Via Gabba, Corso Vittorio Emanuele. E Viale Trento-Trieste
Taccuino di mezzo febbraio. San Valentino: code davanti ai fioristi. Come sarà per la festa della donna, per quella della mamma, del papà. Forse c’è anche quella dei nonni. Mah. Fa comunque bene fermarsi ogni tanto: un pensiero a chi ti è caro. Tanto più tenero quanto più semplice e inatteso. Magari una poesia, perché no? Una brevissima, per esempio. Di Willam Marr, un ingegnere cinese trapiantato in America “I closed / the poetry book/ on the table/ the page you bookmarked/ was a love poem / written for all lovers/ of the world/ the poem I am writing/ is for you/ alone” (Ho chiuso il libro di poesie sul tavolo. La pagina che tu hai segnato era un poesia d’amore, scritta per tutti gli innamorati del mondo. La poesia che io sto scrivendo è per te sola). Una poesia, o l’idea di due sorelline a me care, che si sono svegliate presto, prima di andare a scuola, la mattina di San Valentino, quando ancora i genitori dormivano. Hanno infilato qua e là per la casa bigliettini da caccia al tesoro. Il tesoro era un foglietto un poco gualcito con il disegno a pennarello di un cuoricino da parte della sorellina minore, e una foto di tutta la famigliola.

Ore undici, Via Gabba. Cristina e Giancarlo, una coppia di amici quarantenni con figlio adolescente. Parliamo dell’eterno conflitto generazionale. Dialogo difficile, fin da quando il dialogo non c’era proprio. “Alla fine – dico – bisogna affidarsi…”. Vorrei aggiungere”a Lui”,  ma non sapendo come la pensano in proposito, mi limito a guardare timidamente in alto. I due, all’unisono, alzano platealmente le braccia: “Quel sì, ma tant però!”, esclama Giancarlo, con tanto trasporto da incuriosire tutta la via. Giro poi in  Corso Vittorio Emanuele. Presso   l’erboristeria di Giorgione una giovane coppia con una carrozzina, dove sgambetta una  bambina di due/tre anni. Si chiama Valentina. “Che freddo, vero Valentina?”, dice il padre. E lei, da sotto la sciarpina:”Freddo blu!”.  Freddo cane, freddo boja, freddo barbino, freddo ladro etc. Ma ‘freddo blu’ non l’avevo mai sentito. Vedi dove come da chi può zampillare un lampo di poesia. Dopo simili endovene anti-pessimismo per i giorni grami che tutti stiamo passando, potrei tornare a casa ringraziando. Se non fosse il pensiero che torna di una chiacchierata di un paio d’ore prima con Lucy. Avevamo diviso un caffè, come puntualmente succede in certe giornate in cui una madre ancor giovane sente di dover confidare qualche magone di madre al padre quasi vecchio. Chissà come sta adesso Lucy? Bippa il cellulare. Un suo messaggio: “Grazie per stamattina. L’è semper düra, ma certe boccate d’ossigeno servono a tirare avanti”.

Notizia dal Cittadino (prima pagina, titolone: “Picchiate dal branco di ragazzine”: denunciate sei giovanissime, tutte tra i 13 e i 16 anni): “Due ragazzine sono state picchiate per quasi mezzora da un gruppo di sei coetanee in Viale Trento e Trieste, per una rivalità amorosa esplosa dopo una lite su Facebook”.  Sedici anni. Ho spesso pensato che fosse il miglior tempo della vita, per quanto ribollente di turgori ormonali. Il tempo dell’infinito, dell’estremo, del sogno. Capitava che uno studentino comprasse con molto imbarazzo alla libreria Sommaruga un volumetto dal titolo “Gli amanti di Sofia”, prima che qualche rudimento di greco e il deludente contenuto del testo lo convincessero che non si trattava di una biografia piccante. Ma adesso, buon Dio, dove vanno, cosa pensano, cosa sognano le ragazze e i ragazzi di Corso Roma, o di Viale Trento-Trieste?
22 Gennaio 2011

22 Gennaio 2011

Sant’Antoni da la barba bianca

Scivolando col dito sul calendario in Gennaio, prima di arrivare al 19, mi fermo sempre senza volerlo sul 17, giorno di Sant’Antonio abate. E’ il mio santo prediletto. Sarà perché lo vedevo da bambino sopra la porta della stalla di mio nonno pitalö. E ancor di più nel quadro in chiesa, sul fondo della navata destra, quella degli uomini. Statue e quadri di altri santi e sante mi incutevano soggezione: una sensazione sgradevole di estranea lontananza. Sant’ Antonio no. Il suo saio povero, il bastone col campanello, il suo barbone bianco come la neve, il volto paffuto e sorridente; il maiale a strofinare il muso contro le sue caviglie nude nei sandali impolverati; e il focherello che pareva dare un po’ di tepore nel tempo che le chiese non avevano riscaldamento; e intorno al fuoco una pecora, una gallina, un coniglio. Un santo con il sapore della terra, dell’aia, della nostra non disperata povertà. Nessuno come don Primo Mazzolari ha saputo farne l’elogio. Sentitelo: “Il ‘mio’ Sant’Antonio: il cavallo, l’asino, il bue, la pecora, il maiale, il gallo, l’oca, l’anitra. Poco lontano il fuoco. L’uomo non c’è, il ‘padrone’ non c’è. Il padrone è quasi sempre una presenza ingombrante: dà soggezione e paura. Una volta tanto anche le bestie sono senza padrone. E il fuoco. Il fuoco dei pastori e dei contadini. Il fuoco fa compagnia, come un buon bicchiere. Noi contadini lo conosciamo bene il valore di una fiammata, accesa lungo una capezzagna, in una sosta dell’aratura. Intorno si riscalda la polenta tenuta in piedi da un fuscello. Le membra intirizzite si ravvivano e si distendono: vicino i buoi ruminano e si riposano. La gente istruita dice che noi contadini non abbiamo poesia. Ma se noi, solo noi, abbiamo conservato nelle nostre case quell’angolo di alta e umana poesia che si chiama il focolare. Una bella fiammata e un buon bicchier di vino. Due cose che danno vita e dicono la verità, la verità del volto e del cuore”. Accanto al focherello il pittore anonimo avrebbe dovuto aggiungere una sola figura umana: quella di mia nonna Annetta, intenta a rimestare la polenta nel paiolo, quella volta che aveva perso non so che di prezioso ( che poteva avere di prezioso una vecchia col riot, e le mani e i piedi storpiati dall’artrite ?) e andava ripetendo piano come una giaculatoria in chiesa: “Sant’ Antoni da la barba bianca, fam truà quel che me manca”. Anche il prete pareva meno solenne quando veniva a benedire la stalla il giorno di Sant’Antonio. I figli dei contadini a volte diventavano preti: per la madre e il padre era la consolazione di saperli destinati a una vita migliore, nel senso di una vita senza calli alle mani. Non così per un pretino di cui mi raccontava mio nonno: figlio di contadini, in seminario ci era andato tardi, dopo avere fatto in tempo a farsi crescere sulle mani i calli di suo padre e di suo nonno. Alla sua prima benedizione delle stalle da giovane coadiutore capitò nel cascinale di un pitalö refrattario all’odor dell’incenso. Il pitalö non seppe resistere: «Ma l ü,, cun tüt el sò  latin, l’è  bon da muns una vaca?». «Sa chì ‘l scagnin », disse il pretino.  Toltasi la stola e rimboccate la maniche, appoggiò la testa al sottopancia della vacca e diede di mano alle tettarelle con la naturalezza di chi consoce il mestiere. Il latte cominciò a sprizzare nel secchio in tutta allegria. Poco mancò che al pitalö venisse un coccolone: «Ma alura, anca lü  l’ è  un paisan cume mì » . Poi chiamò la moglie: «Teresina, ciapa un salam dal baldüchin: de quei giüsti, me racumandi!».
15 Gennaio 2011

15 Gennaio 2011

Il cacciatore antico dell’isola di Costaverde

La voce da basso dell’amico pittore Gigi Poletti al telefono. Più arrochita di sempre: «E’ mort Mario Pisati». E’ una conferma, Gigi. Siamo in guerra, in trincea. Ci sistemiamo l’elmetto, consapevoli che non basterebbe comunque. Ogni poco uno scoppio, il sibilo di un ‘cecchino’: e intorno un posto vuoto. Per quanto vegliata dal santuario della Costa, neppure la nostra isola di Costaverde fa eccezione. Non è molto che mi aveva sorpreso l’annuncio dell’addio di Pino Gross, fratello del nostro coetaneo Gabriele. Pino Gross, portiere dello squadrone calcistico ‘juniores’ anni Cinquanta di Costaverde. Un senatore  molto comprensivo delle mie pause di pivello razza ‘abatina’. Della stessa classe di Pino(1937) era Gianluigi Sormani. Razza furlana, era arrivato qui dal Cremasco. Penna e cuore d’alpino. E adesso Mario, compagno di classe delle Elementari. Conservo una foto dell’ultimo anno, datata 18 Giugno 1951. Ventuno maschi e undici femmine schierati su tre file a fianco della maestrona. Un busciare di scumagne. Mario è in piedi sulla panca della terza fila tra Mata-lögia e Rumin. Il  visetto arguto del lepìn. Un estro silvano che lo avrebbe accompagnato per la vita. Una vita fatta di campi e di fiume, secondo la vocazione romantica dei cacciatori storici del paese: Giròlem e La Vèla, Paulìn Gross e Pino Majett (propi lü, mè pader). Al funerale di Mario la chiesa è piena di compaesani, molti dei quali   non vedevo da mezzo secolo: da quando ho lasciato il paese, senza però potermene liberare mai. Seguo pochi amici che assistono alla funzione dall’alto della cantoria, intorno all’organista di sempre, Angelo Doldi, che si approssima agli  ottanta ma pigia sulla tastiera e sui pedali con lo stesso trasporto di gioventù. Senza volerlo ci appartiamo in un fitto di ricordi che rifanno la chiesa, il paese, il mondo così com’era quando lo abbiamo vissuto da ragazzi in pepertèra. Ma quando il prete invita allo scambio del gesto di pace, torniamo quali siamo adesso, nella stagione in cui si asciugano i sogni e fervono i ricordi. Quando per la prima volta nella liturgia della messa fu introdotto il ‘segno di pace’, a Costaverde il parroco don Rissulin lo saltava bellamente: sapeva dell’indole irsuta della sua gente e non voleva rischiare di suscitare commenti nel fondo della chiesa, la dove ai pilastri si appoggiavano uomini grevi di sonno dopo la mungitura: “Ma s’te fè, faton d’un faton”, sarebbe stato il più casto. Oggi no. Qualcosa più forte  delle nostre abitudini ci porta l’uno verso l’altro a stringerci la mano come per dirci tutto quello che non può il nostro vecchio pudore: e che Mario ci saluti gli amici tutti. Per quanto non si abbia fretta di raggiungerli, nessuno vorrebbe fermarsi di qui troppo a lungo. Di Là, nei pressi del Paradiso, c’è un’osteria sotto la neve. Sull’insegna bicoscante sotto le üghère si legge “Usteria dei sì perché”. Dentro scoppietta il camino. Intorno a una gran tavolata si raccontano storie antiche e dimenticate: favole cordiali come il vino. Persino il vecchio San Pietro è venuto clandestino: seduto sulla ‘peca’ del camino stende le mani al ceppo crepitante. Fa resistenza, ma poi si arrende alla caraffa che gli porge Lino Cacin. Intanto si è avviato il coro: “O mia Rosina tu mi paci tanto, siccome il mare piace alle sirene”.
8 Gennaio 2011

8 Gennaio 2011

Il testamento di pa’ Batista

A Milano con Giorgia. Con il 2011 la nipotina si avvia al suo 17esimo compleanno. La accompagno in zona Corvetto dove ha un’esercitazione di ballo e canto. Com’è cresciuta Giorgia dal tempo che, venendomi incontro dall’asilo di Corso Archinti, dolcemente storpiava il mio nome, “nonno Andéla”. Allora era appena Giorgina. Tornano i “pensieri” di Jibran: «I vostri figli non sono i vostri figli,/ sono i figli che la vita ha per se stessa./ Essi vengono attraverso di voi, ma non da voi./ E benché vivano con voi non vi appartengono./ Voi siete gli archi da cui i vostri figli/ come frecce vive vengono scoccate...». Non solo i figli, Jibran, anche i nipoti. Ha ballato e cantato, Giorgia, nello studio di viale Lucania: l’avrei applaudita se non fossi di aspra razza bassaiola. In più, sono arrivato col 2011 alla soglia dei settanta: tempo cui più conviene il silenzio. Settant’anni. Quando c’è arrivato mio nonno Battista nel 1954, di anni ne avevo tredici ed ero seduto accanto a lui sulla “peca” della casa della pergola. Fumava la pipa il pa’ Batista, con la stessa pensosa soavità di Sandro Pertini e di Enzo Bearzot. Mi sembrava vecchissimo, ed io, fresco di studi scolastici sulla storia patria, parteggiavo d’acchito per la sua anti-retorica: «La patria l’è ca’ nosta. Sono le prose della nostra ortaglia. E i quattro campi che ho messo insieme con un lavoro che mi ha fatto vecchio prima del tempo. Quando non ci sarò più, sarà roba di tuo padre, e poi roba tua..». Adesso devo essere io a sembrare vecchissimo alla nipotina. È la legge della vita. Essere pronti come il capo indiano di Jack London, troppo vecchio per tenere il passo della sua tribù diretta d’inverno a cercare terre meno ingrate. Il vecchio capo ordina ai giovani di essere lasciato indietro: difeso da un focherello che si sarebbe estinto nel giro di poche ore, spiato dagli occhi affamati dei lupi in attesa. Essere pronti, senza abdicare al mestiere di vivere. I lupi di London hanno oggi altri nomi. Stiamo in precaria trincea. Ogni poco intorno, il vuoto di un amico colpito. Aggiustiamo l’elmetto, e con un brivido aspettiamo la notte. Non sempre ringraziamo il sole che torna, né finalmente capiamo il volo dell’allodola («La va sü in ciel a ringrassià el Signur» dicevano le nonne d’antan). Giorgia ha finito. Avviati alla fermata del metrò, mi distraggo a ricordare il testamento olografo di nonno Battista. Poche parole nell’italiano storpio della sua seconda Elementare: «Viracomando tanto di non venga un disacordo pensate ai vostri cari non anno preso nulla da nesuno ricordate abiamo fatto tutto per il vostro bene chiudo il mio pensiero col cuore pieno di lagrime ciau tutti». Nel ricucirlo dai ricordi me ne immagono e sto per attraversare la strada senza aspettare il verde pedonale: «Nonno - mi richiama Giorgia, prendendomi per un braccio -: vuoi rischiare la vita? È vero che hai settant’anni: ma vorrei arrivarci anch’io!»
27 novembre 2010

27 novembre 2010

Buon onomastico, junior

Buon onomastico. Non lo si augura più.  Vado controcorrente per la ricorrenza del 30 Novembre, Sant’Andrea. Buon onomastico, Junior. Junior è Andrea, mio ultimo nipotino, due anni compiuti. Sono un poco preoccupato che ti abbiano dato il mio stesso nome, Junior. Sono stato preoccupato  anche per me,  da ragazzino, sapendo di aver preso il nome da uno zio morto di nefrite a soli 14 anni.  Quando sono arrivato a quell’età,  ho vissuto l’anno con l’angoscia nascosta a tutti che ne   avrei condiviso il nero destino. Almeno questa sofferenza non ti toccherà, Junior. E potrai accettare il tuo nome, che mi pare assai bello. Andrea, da ‘andros’, uomo. Per i latini, che la sapevano lunga, accanto a homo, (da humus, terra, appartenente alla terra) c’era vir ( da vis, forza, uomo forte). Noi usiamo ‘uomo’ nel senso di vir, anche in dialetto: “Son diventad om a pessade nel…”, mi confidò candidamente un maìster mentre gli porgevo il filo a piombo, un giorno della mia brevissima esperienza di magüt. Voleva dire che si può crescere e acquistare in forza e saggezza anche grazie a certi spicci metodi educativi,  per fortuna passati di moda. Ti capiterà, a scuola di leggere qualche pagina dei ‘Promessi Sposi’ (se non l’avranno beceramente tolto dai programmi). Nel capitolo XX, si parla del rapimento di una povera giovane contadina di nome Lucia, per comando di un signore cresciuto in fama e potere attraverso quotidiane scelleratezze; per mezzo di un sicario senza scrupoli soprannominato Nibbio. Quando il sicario arriva al castello dell’Innominato (così  il Manzoni chiama il signore di cui sopra), confida al padrone di aver avuto compassione della povera Lucia:  “E’ una storia la compassione un poco come la paura: se uno la lascia prender possesso, non è piú uomo”. E l’Innominato, dopo aver parlato a sua volta  con Lucia, è preso dalla stesso scombuglio: “Ha ragione quel bestione del Nibbio; uno non è piú uomo; è vero, non è piú uomo!”. Per il Nibbio e per l’Innominato, uno è uomo quando è cinico, violento, sopraffattore, incapace di commozione. Il significato di uomo che vorrei ti risultasse simpatico, Junior, è un altro. Te lo spiega, molto meglio di me, uno dei miei più assidui  scrittori d’abatjour.  Dal ‘Giulio Cesare’ di Shakespeare  le parole di Antonio sul cadavere di Bruto: “Questo fu il più nobile romano di loro tutti. Tutti i cospiratori, salvo lui soltanto, hanno fatto quel che hanno fatto per invidia del grande Cesare. Soltanto lui, in un onesto progetto generale e per il bene di tutti, diede unità alla congiura. La sua vita fu nobile, e gli elementi erano così ben composti in lui che la Natura potrebbe alzarsi e proclamare al mondo: Questo fu un uomo!”.
27 Novembre 2010

27 Novembre 2010

Color Manzoni


San Martino, cuor di Novembre. Chissà se qualche maestra fa ancora studiare a memoria i settenari del Carducci?  La nebbia a gl'irti colli/  Piovigginando sale,/  E sotto il maestrale/ Urla e biancheggia il mar… Apparentemente una cosuccia, una filastrocca orecchiabile. Al contrario, è una formidabile sintesi della quintessenza del mese:  Sta il cacciator fischiando/ Su l'uscio a rimirar/ Tra le rossastre nubi/ Stormi d'uccelli neri,/ Com'esuli pensieri,/ Nel vespero migrar. Tutto si ferma nell’accendersi autunnale del tramonto, e il nugolo degli uccelli neri  (chissà? le rondini di Gozzano, i corvi di Van Gogh)  se ne vanno nessuno sa dove. E’ un brivido novembre: di acqua o di sole. E ha un colore che nessuno ha reso meglio  del Manzoni. Me lo conferma una paginetta di Delio Tessa, in una sua preziosa nota ambrosiana (cfr. Delio Dessa, “Color Manzoni”, Scheiwiller 1987): “Manzoni: invano tendo l’orecchio per cogliere qualche rumore. Nulla. Anche le scarpe che scricchiolano infastidiscono. I Promessi Sposi sono un libro dove non si grida. Nemmeno le sommosse di popolo rompono in clamori, il mareggiare della folla è come se venisse di molto lontano, non spaventa e neppure disturba la vostra pace. I Promessi Sposi sono la lettura serale per eccellenza. Dopo il frastuono della giornata, aprite il libro del Manzoni a caso e sarà per voi come un Vangelo di serenità, leggete per poco senza sforzarvi di capir troppo ma lasciandovi calare in quella prosa dolcemente come in un’acqua tiepida. Per il vostro riposo notturno basterà”. E’ sabato e io sto andando in treno verso Varenna, presso là dove si divarica a occidente la gamba sinistra del lago, “quel ramo del lago di Como…”. Un ramo di infinita dolcezza. Sulla quiete dell’acqua oggi ingrigita di nubi più pigre che minacciose, senti la barca dei Promessi che lascia la riva e i terrori della notte. A scuola ci hanno fatto una testa così con il monologo di Lucia: “Addio monti sorgenti dall’acque ed elevati al cielo…”. A suo tempo ho dovuto anch’io mandarlo a memoria, di contraggenio. Qui mi è sempre parsa più alta la retorica della poesia. Più intensamente poetico il pezzo che l’introduce: “Non tirava un alito di vento; il lago giaceva liscio e piano, e sarebbe parso immobile, se non fosse stato il tremolare e l’ondeggiar leggiero della luna, che vi si specchiava da mezzo il cielo. S’udiva soltanto il fiotto morto e lento frangersi sulle ghiaie del lido, il gorgoglio più lontano dell’acqua rotta tra le pile del ponte, e il tonfo misurato di que’ due remi, che tagliavano la superficie azzurra del lago, uscivano a un colpo grondanti, e si rituffavano. L’onda segata dalla barca, riunendosi dietro la poppa, segnava una striscia increspata, che s’andava allontanando dal lido. I passeggieri silenziosi, con la testa voltata indietro, guardavano i monti, e il paese rischiarato dalla luna, e variato qua e là di grand’ombre”. Oggi, sabato di primo Novembre, il lago passa con la levità e la pace di allora, di sempre.  Sento aria di Lecco, cerco il Resegone. Vorrei chiamare per un saluto l’amico brianzolo Lüisin, mio collega di Lettere al San Carlo. Ha il cellulare spento. La sua cartolina, appena approdato alla pensione: «Quando me ne andrò, voglio una tomba che guardi il Resegone».